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Cultura
Il sole su Napoli
di Luigi Alviggi
Parliamo del libro “ IL SOLE SU NAPOLI “ di Paola AMADESI (Edizioni PERDISA 2004, pagg. 216 - € 9,50), rivisitazione letteraria della celeberrima vicenda di Masaniello (Tommaso Aniello di Amalfi: 1620 – 1647), pescatore che guidò la breve rivolta napoletana - appena dieci giorni - scoppiata nel luglio 1647 per l’imposizione da parte del viceré spagnolo, il duca d’ARCOS rappresentante di Filippo IV, di un’ennesima gabella sulla frutta, molto onerosa per il popolo che si cibava prevalentemente di pane e appunto frutta: “Napoli veniva depredata delle sue povere risorse dalla corona di Spagna, del tutto decadente, nella moralità come nelle casse del regno, e pullulante di hidalgos parassiti…”.
Sulla drammatica avventura del capopopolo sovrasta l’eminenza grigia e fumosa della sommossa, l’anziano abate Giulio Genoino, i cui intrighi sono ben messi a fuoco nella narrazione. Come riferimento storico-artistico, le vicende manzoniane di Renzo e Lucia iniziano nel novembre 1628.
L’opera è dedicata a Massimo TROISI “che ci credeva a tal punto da volerne trarre un film”, come enuncia la fascetta in sovracopertina, ed è introdotta dalla sorella Rosaria del grande attore prematuramente scomparso. Non sempre corretta nel testo appare la trascrizione del dialetto partenopeo, ma va riconosciuto il massimo impegno relativo all’autrice ravennate.
Il popolano che credette di farsi re è da sempre una figura emblematica ed affascinante della napoletanità. Le sembianze nel suo presunto ritratto coevo di Onofrio Palumbo al Museo di S. Martino - pizzo e baffi al tempo di rigore - non ce lo figurano come un plebeo partenopeo quanto piuttosto come un alto prelato francese, ma di certo la sua maniera d’essere fu oltremodo verace: “negli occhi aveva tutte le nottate trascorse in mare, e nel cuore la fierezza di Napoli ed il suo congenito pessimismo allegro, mentre le sue labbra non riuscivano ad esprimere, a tradurre ciò che l’anima provava.”
Napoli si infiamma con l’occasione in un’unità ammirevole, scossa dal sogno di una vita meno grama ed incollerita da un compagno onnipresente che volentieri avrebbe perso per via “la miseria, che spingeva chiunque a compiere le più turpi azioni, pur di sopravvivere. La miseria, madre generatrice delle più spietate lotte e delle più atroci guerre. La miseria, grande sorella del popolo di Napoli, enorme piovra tentacolare che tutto annientava.” Miseria imperava dappertutto, e sulle luride strade “avanzi di pasti magri che topi e cani si litigavano ferocemente, prima di diventare gli uni il pasto degli altri.”
Ma già su Piazza Mercato, teatro ricorrente con la Basilica del Carmine degli accadimenti cittadini importanti, nel romanzo come nella realtà storica, e luogo plurisecolare di pubbliche esecuzioni, “vegliava da secoli il fantasma di Corradino di Svevia, simbolo d’una violenza che non avrebbe lasciato quel teatro di morte per secoli a venire, inutile, inascoltato, monito di sangue e morte.”
Triste presagio, lo spirito senza pace di Corradino - decapitato sedicenne nel 1268 con i suoi compagni - e dei tanti altri ivi ingiustamente trucidati, permea di aspre rivendicazioni “i modi schietti dei napoletani, la loro vivacità, la loro capacità di ridere anche delle cose più tragiche, loro grande forza.”
Il turbine, rapido e intenso, travolge tutti e tutti coinvolge. Nobiltà, plebe, clero, i vari personaggi storici trovano un posto preciso in questa vicenda che apre il cuore dei tartassati a grandi speranze per risvegliarli a breve nell’ineluttabilità dell’ordinario: “coi cuori colmi di speranza e di aspettative guardavano al futuro, mentre, come un avvoltoio volteggia sui cadaveri in attesa del momento propizio per divorarli, così il fantasma della Spagna aguzzina incombeva ancora su di loro ignari.”
Masaniello non è la figura centrale del libro, lo sono Luca Del Buono, Comandante delle Guardie del Viceré, ed il barone Astore Vincenzi, fratelli di vita se non di sangue, non cresciuti insieme ma resi inseparabili dal coraggio e dalla temerarietà nell’affrontare la vita stessa.
Masaniello e Luca, però, costituiscono le due facce di una stessa medaglia: troppo condividono per estrazione sociale, per radici ataviche, per sensibilità ambientale, per trovarsi su sponde opposte a causa del successo presso il viceré dell’uno o della rude vita lavorativa dell’altro. Li accomunerà anche un destino avverso cui non sapranno o non vorranno sfuggire.
Numerose e curate nel testo le descrizioni di cavalli, a testimonianza della viva predilezione dell’autrice, e d’altra parte, per il maggior mezzo di locomozione dell’epoca, il risalto appare legittimo: “il suono della tammorra si espandeva nell’aria. Scandiva il tempo della vita, delle passioni, degli odi… e, come nell’amore, al culmine della fusione tra cavallo e cavaliere, in un magistrale piaffer, Luca gettò il capo all’indietro, e chiuse gli occhi, inebriandosi del sole e del momento.”
Astore e la sorella Laura rappresentano gli unici sopravvissuti di una nobile famiglia decaduta e lunga parentesi nella narrazione è il racconto del loro amore incestuoso. I due giovani si illudono di trasfigurare in un rapporto di normale coppia l’insanabile dolore per le tristi vicende familiari, un amore estremo che, dopo il matrimonio sacrilego, sacrificherà subito sul suo altare l’anello debole del legame, travolto da una gioia troppo grande per un corpo esausto: “sul chiarore della pelle quasi trasparente, il rosso scuro ed oltraggioso del sangue. Dalla bocca al pube, un fiume irriverente, irrispettoso come un’ingiuria, rosso, e più rosso ancora là, dove era più recente, dove si lacerava in macchie come pozze all’apparenza senza fondo, si riversava sul corpo scarno.”
Il romanzo svolge il dramma dalla prospettiva dei potenti, di coloro che vogliono conservare l’ordine precostituito ed ignorano le pretese del popolo. Anche Luca ed Astore sono cortigiani, benestanti, ligi al proprio dovere, e pur sensibili ai bisogni della città non arrivano al punto di dialogare con essa, “le parole sarebbero state inutili, vane, poiché non ci poteva essere comprensione tra gente della stessa razza divisa da interessi incompatibili”. E la folla, perennemente rumoreggiante sullo sfondo, è relegata ad un ruolo secondario.
Infine tutto verrà travolto e una sorte infausta accomunerà le vicende dei protagonisti, sussulto di equità che non rispecchia la Storia di sempre per questa nostra Grande e Travagliata Città.
Masaniello venne ucciso, probabilmente, ad opera dei suoi stessi sostenitori, a causa dell’invidia scoppiata per i suoi innegabili successi: “Era giorno, e il sole rischiarava ogni cosa. Napoli accaldata ed infuriata si avventò sul corpo di Masaniello, decapitandolo in un rito che non aveva il sapore della vendetta, ma quello della sconfitta.”
Di lì a poco, la gravissima pestilenza del 1656 avrebbe cancellato circa la metà della popolazione napoletana, pareggiando nell’universalità della morte le disparità di tanti singoli destini.
28/5/2004
  
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